La scelta del Governo Conte di negoziare un memorandum d’intesa con Pechino per consentire all’Italia di diventare un anello della nuova via che dovrebbe collegare la Cina all’Europa ha provocato polemiche. Non si è fatta attendere la reazione degli Stati uniti di Donald Trump, preoccupati che gli alleati possano mettere a rischio l’egemonia americana sulla partita del 5G, e neanche  quella dell’Unione europea, formalizzata in una comunicazione ufficiale sulle linee guida che i Ventotto devono seguire nei loro rapporti con la Cina.

L’Italia è al momento l’unico Paese del G7 ad aver intavolato un’intesa per entrare a far parte della Belt and Road initiative, un piano infrastrutturale gigantesco con una quota di investimenti – a cinque anni dal lancio dell’iniziativa l’ammontare è pari 450 miliardi di dollari  – dieci volte  maggiore di quella del piano Marshall nel dopoguerra. Tecnicamente non si tratta di un accordo, quello che i due Paesi dovrebbero siglare in occasione della visita del Presidente Xi Jinping in Italia il prossimo 21 marzo, ma di un Memorandum of Understanding (MoU), che dovrebbe definire i termini e le condizioni della partecipazione dell’Italia alla BRI, ma che non porrebbe vincoli sul piano giuridico. Molto più pragmatici sono gli accordi commerciali che altri Paesi europei, come Francia e Germania, hanno in vigore con la Cina. Accordi peraltro inevitabili, considerando che la Cina è la seconda potenza economica mondiale, e se si pensa che nel 2017  l’Unione europea ha esportato in Cina beni per 198 miliardi di euro e importato beni per 375 miliardi di euro.

La “nuova via della seta”, come viene spesso chiamata nei convegni, o Belt and Road Initiative (BRI), traduzione più fedele al termine cinese yi dai yi lu, che letteralmente significa “una cintura, una via”, è un progetto di espansione logistica che mira ad avviluppare Europa e Asia con navi e treni, controllandone la maggior parte delle infrastrutture.

Ad oggi 68 Paesi hanno firmato accordi bilaterali con la Cina, in cambio del finanziamento di fabbriche, acquisto di porti, centrali idroelettriche, dighe, aeroporti, ferrovie, strade, ponti. Una cintura logistica che può significare sia crescita, nei Paesi mediamente sviluppati, sia assoggettamento economico, in Africa.

Quanto all’Italia, le preoccupazioni internazionali sulla firma del Memorandum non sono tanto legate al contenuto dell’intesa, quanto al problematico contesto geopolitico nel quale essa si inserisce. È cresciuta la percezione che la Cina da gigante economico si stia trasformando in gigante politico e che il progetto della BRI rientri, neppure troppo velatamente, nel disegno di Xi Jinping di fare della Cina una potenza globale a tutti gli effetti. In tale contesto, gli atteggiamenti di Stati Uniti e Unione Europea nei confronti di Pechino  sono cambiati. L’amministrazione Trump, che non perde mai occasione per mettere in guardia dalla minaccia asiatica alla sicurezza nazionale, ha preso di mira la Cina come avversario strategico e ha ingaggiato un’offensiva per ottenere una sostanziosa correzione del deficit commerciale. A sua volta, sono aumentate le richieste europee alla Cina per maggiore corresponsabilità nella gestione dell’ordine internazionale, per un maggior rispetto della “rule of law”, e per un rapporto economico e commerciale più equilibrato e basato su trasparenza e reciprocità.  

Reazioni e timori da parte dei nostri alleati si sarebbero potuti evitare se il Governo gialloverde avesse proceduto con trasparenza e linearità nella conduzione delle trattative con Pechino. Invece, anche per via degli scontri che caratterizzano la maggioranza, e pregiudicano la nostra credibilità all’estero, il testo del MoU è stato reso pubblico tardivamente, e dei rapporti intessuti dal Governo con la Cina si è avuta finora, e si continua ad avere, scarsa pubblicità. Le indiscrezioni non sono, peraltro, positive. L’intensificazione dei rapporti tra Roma e Pechino si dovrebbe al Sottosegretario allo sviluppo economico, con delega al commercio estero, Michele Geraci, che recentemente si è opposto all’entrata in vigore del regolamento europeo per il controllo degli investimenti esteri e ha fatto saltare non pochi paletti di protocollo diplomatico (Giulia Pompili ci fornisce fornisce un interessante affresco del personaggio su Il Foglio).

Quello che ci auspichiamo è che l’apertura nei confronti della Cina porti con sé una contropartita vantaggiosa per l’Italia, e in armonia col dettato delle richieste europee; un quadro europeo comune si deve formare anche nella gestione dei rapporti con gli Stati Uniti, soprattutto in relazione alla partita delle telecomunicazioni. Con la speranza che al Mise si torni a parlare di meno cinese, e ci si ricordi da che parte stare.