Siamo nel mezzo della tregua di tre giorni siglata il 16 febbraio a Cagliari, dopo l’accordo raggiunto dalla vertenza convocata dal ministro dell’Agricoltura, Gian Marco Centinaio. Tre giorni nei quali la proposta messa sul tavolo per avere 72 centesimi al litro e arrivare a fine stagione a un euro, come chiedono gli allevatori sardi, sta passando al vaglio delle campagne. Il 21 si riprenderà con un’altra consultazione a Roma.
La protesta dei pastori dei giorni scorsi, che dalla Sardegna si è estesa a Toscana, Marche, Lazio, Calabria e Sicilia, ha colpito l’opinione pubblica e riacceso la discussione sui bassi prezzi legati alla filiera alimentare. Il contesto sardo è del tutto particolare e merita perciò un’analisi approfondita. In Sardegna ci sono 2 milioni, 851 mila 517 pecore, distribuite in 12.267 allevamenti, per lo più micro aziende prive di allevamenti intensivi. Una cultura e una politica locali uniche al mondo hanno fatto sì che la produzione si orientasse quasi esclusivamente verso l’allevamento ovino, e solo secondariamente verso altri tipi di bestiame. Un esercito di pecore che genera una sovrapproduzione cronica inflazionando il prezzo al ribasso.
Quasi tutto il latte viene trasformato in pecorino romano, perché è un prodotto di basso valore, che non si guasta in tempi rapidi, e che mantiene le sue caratteristiche inalterate, ideale quindi per essere trasportato a grandi distanze.
La sovrapproduzione di latte e pecorino romano può essere contrastata attraverso una produzione diversificata. Ma le 12 mila aziende del territorio, di dimensioni troppo piccole, non hanno risorse economiche, né competenze di marketing per aprire nuovi segmenti commerciali del settore. Inoltre, c’è una scarsa propensione alla cooperazione ad unire sia le cooperative attuali, sia i caseifici e i conferitori attuali disseminati in centinaia di punti vendita. Costituiscono un ulteriore disincentivo il peso del fisco e della burocrazia italiana, uniti ai costi attinenti alla produzione e alla distribuzione dei prodotti.
È possibile far salire il prezzo del latte con logiche affini al libero mercato: calibrando meglio i sussidi concentrandoli su chi dimostra reali capacità di investimento; evitando di acquistare le eccedenze invendute di pecorino, per incentivare una razionalizzazione del volume di produzione; creando un temporaneo tetto massimo di produzione. Queste tre misure darebbero vita a un circuito di concorrenza virtuoso, che vedrebbe i lavoratori delle aziende improduttive venire inglobati da quelle più forti.
Un’eventuale strategia protezionistica sarebbe sbagliata perché provocherebbe una riduzione dell’export dei prodotti sardi, con conseguenze negative sul mercato interno in termini di prezzi e di qualità.
Per aiutare i pastori sardi ad essere competitivi – in un mercato messo a rischio dalla presenza di agguerriti concorrenti pronti ad impadronirsene – occorrono misure strutturali che rispondano alle logiche di libero mercato. Misure pubbliche come sanzioni e sussidi sono soluzioni tampone che rispondono all’emergenza ma non risolvono il problema.
Altra cosa sono le misure auspicabili a livello europeo. In tal senso, il centrodestra si è attivato con il Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, che ha parlato con il Commissario per l’Agricoltura Hogan, il quale ha garantito che verranno messi a disposizione fondi importanti per la promozione a livello europeo dei prodotti sardi. Per vincere la partita sulla qualità, e non sulla quantità, oltre alle misure sopra proposte, occorre una promozione concertata, nel quadro della Politica Agricola Comune (PAC), delle specificità dei prodotti, facendo rientrare le caratteristiche positive del latte sardo negli standard industriali. Come qualità vengono registrati solo i parametri del grasso, caseina, proteine, cellule somatiche e carica batterica, tralasciando quelli che invece fanno la differenza come l’alta concentrazione di CLA, Acido Linoleico Coniugato, acido grasso polinsaturo che impedisce la crescita del colesterolo cattivo. E un ruolo importante, sempre su impulso della PAC, dovrà essere svolto dalla Grande distribuzione organizzata (Gdo), l’attore più potente della filiera alimentare, a diretto contatto col consumatore. Sono le varie insegne Gdo, infatti, ad avere l’opportunità di – e le risorse per- raccontare la filiera, restituire identità al cibo ed esaltarne le qualità. Certi che un cittadino consumatore, se informato, non baderà solo al prezzo di un prodotto, ma al suo valore d’insieme.