Sono una persona per bene”. Sono queste le parole con cui si apre la lettera di dimissioni presentata lo scorso 16 aprile da Catiuscia Marini (Partito Democratico), l’ormai ex Presidente della Regione Umbria. La decisione è arrivata dopo aver saputo di essere anch’essa indagata dalla Procura di Perugia, nell’ambito dell’inchiesta che ha riscontrato alcune irregolarità nella selezione di personale nella sanità pubblica e portato all’arresto del Segretario regionale del Partito democratico, Gianpiero Bocci.

Un terremoto giudiziario che apre la strada a un terremoto sistemico. La comunità umbra saluta la vicenda come una liberazione da anni e anni di soprusi pubblici, con cui la classe dirigente avrebbe da sempre provveduto, attraverso la forma più antica di clientelismo, alla spartizione di posti di lavoro e favori professionali in cambio di voti, facendosi così beffa di merito e competenze. Un modo di fare, e segnatamente di governare, talmente pervasivo, di cui tutti ora si dicono a conoscenza e di cui la maggior parte, a rigor di logica, avrà pure tratto beneficio.

Così i fatti giudiziari che si stanno consumando a Perugia, ci permettono di dare conto dello storico sistema che per anni ha governato le Regioni rosse e della sua attuale crisi. Il contesto a cui ci riferiamo è quello della cosiddetta “Italia di mezzo”, che all’indomani dell’Unità del 1861 si trovava al “centro” non solo territorialmente ma anche ideologicamente: un’Italia né clericale né sanfedista né laico-liberale, insomma non schierata, con una società civile pressoché priva di identificazioni politiche.

Politicamente immatura, quella parte di Italia fu – fuor di metafora – travolta dall’avvento dei partiti di massa e trovò, più tardi, nell’antifascismo la sua identità. Per il Partito Comunista, e per le formazioni che ad esso si sono sostituite dopo la sua dissoluzione, non fu difficile, anche in virtù della sua potente macchina organizzativa, inserirsi nei gangli pubblici e sociali di quel territorio. Quello che si instaurò nel Centro Italia fu un sistema che aveva al centro la famiglia, in cui il voto si tramandava di padre in figlio, e che si basava su un alto livello di assistenzialismo, su uno scambio di consenso pervasivo e su un accentuato dirigismo economico (quest’ultimo soprattutto in Umbria).

Storicamente simboleggiata dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1989 e dalla corsa sfrenata verso i modelli di consumo capitalistici, la grande slavina (per usare un termine familiare a chi studia l’attualità politica) si abbatté sulle Regioni rosse, portando con sé il progressivo disfacimento dei valori che ne sostenevano il sistema. Da lì, dalla “scomparsa delle lucciole” come ebbe a definirla Pasolini già nel 1975, lo spaesamento regnò sovrano in tutti i protagonisti della “partitocrazia”, che di fronte al crescente individualismo della società risposero con metodi percepiti come ancora più anomali, quando non apertamente illegali, se non altro perché non più socialmente condivisi.

E così, mentre le sigle di partito cambiavano, gli attori al timone rimasero gli stessi, anche se non seppero – e non poterono – più garantire gli stessi livelli di benessere, vuoi perché finì la rendita dell’opposizione per la sinistra, che a partire dalla Seconda Repubblica trovò la strada al Governo nazionale, vuoi perché la crisi distributiva che si scagliò sul Paese inferse un durissimo colpo alle politiche di assistenzialismo, che seppur remunerative sul piano del consenso, avevano contribuito a far sprofondare l’Italia nel baratro del debito pubblico.

Così, all’apprezzamento per il “buon Governo”, si è sostituito il fastidio per il “lungo Governo”, che spiega la reazione di giubilo con cui è stata accolta in Umbria la notizia della rovina di chi, il Partito Democratico, agli occhi dell’opinione pubblica aveva ereditato soltanto le pratiche del “mal Governo”.

Ciò che resta da chiedersi è cosa succederà ora. In questo clima politico incandescente, che vibra da una parte sotto i colpi del giustizialismo targato 5 Stelle e dall’altra per il fiuto opportunistico di Matteo Salvini, pronto ad accaparrarsi l’ennesima Regione, al Partito Democratico non è convenuto far blocco attorno alla sua leadership umbra, decidendo così di abbandonare la sua roccaforte. Storicamente, alla fine di una egemonia se ne sostituisce sempre un’altra. E se l’altra potenziale forza in questione non è territorialmente pronta ad accogliere la sfida, troverà più agevole insinuarsi nei solchi organizzativi già predisposti da quella precedente.

Più che mai oggi che, con un’espressione di preferenze così volatile, a spiccate tinte gialle e verdi, la presunta onestà e la promessa di cambiamento da sole non possono bastare a governare sapientemente una Regione e a sedimentarvi un nuovo e duraturo consenso.