La stangata dell’Ocse non si è fatta attendere. Le previsioni contenute nel Rapporto economico sull’Italia ci informano che nel 2019 il Pil dovrebbe registrare un calo dello 0,5%, e nel 2020 un aumento dello 0,2%. L’organizzazione internazionale addossa le colpe alle due riforme simbolo dell’operato del Governo: Quota 100 rappresenterebbe una misura non sostenibile sul piano generazionale e una ulteriore minaccia per il debito pubblico; mentre il reddito di cittadinanza rischia di “incoraggiare l’occupazione informale e di creare trappole della povertà”. Tutto ciò, in un quadro impietoso: l’Italia è il Paese a crescere meno tra le nazioni ad alto progresso economico, con un calo del Pil pro capite del 2,5% in dieci anni (2008-2018), un debito pubblico lacerante e investimenti insufficienti.
Anche la risposta dei Ministeri non si è fatta attendere ed è uscita dritta dritta dal copione del Governo del cambiamento: “Niente intromissioni”. Amen.
Peccato, però, che l’Ocse è un’organizzazione più che legittimata ad intromettersi nelle politiche di finanza pubblica di uno Stato membro. Così come lo sono tutti gli altri organismi internazionali, le cui regole sono accolte dagli Stati che aderiscono volontariamente al trattato di istituzione. Nata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale per garantire una cooperazione economica tra le nazioni europee uscite distrutte dal conflitto, l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE, così si chiamava al principio), si pose l’obiettivo di facilitare l’arrivo e l’implementazione degli investimenti americani contenuti nel Piano Marshall (1947). In una fase storica caratterizzata, al tempo stesso, da transizione economica e rigidismo geopolitico, l’OECE si fece anima della condizione occidentale, e da fucina dell’imminente integrazione europea divenne il terreno dell’atlantismo neo-liberale. Nel 1960 venne firmata a Parigi un’altra Convenzione che diede vita all’Ocse, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, con una vocazione non più regionale ma internazionale, votata ad accogliere tra i suoi membri le più importanti economie di mercato del mondo. Oggi l’Ocse conta 35 Paesi membri e le è stato riconosciuto lo status di osservatore presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Non è una novità che i nostri attuali rappresentanti al Governo dimostrino un senso storico delle relazioni internazionali pressoché nullo. Disfattismo e approssimazione sembrano sempre più le parole d’ordine di questa rivoluzione all’insegna del nulla, che potrebbe portare a una divisione dello schieramento politico tra liberali e illiberali, tra apertura e chiusura.
Anche le previsioni al ribasso provenienti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Commissione europea sembrano scivolare addosso al Governo, che continua a difendere le sue scelte economiche. Juncker si è detto preoccupato perché l’economia italiana continua a regredire e Lagarde ha messo in guardia sulla prossima recessione, ammonendo i Paesi con un alto debito a mettere in atto politiche fiscali adeguate. L’unico a provare ad alzare la testa dall’impasse generale di Palazzo Chigi sembra essere il Ministro dell’Economia, Giovanni Tria, restio a firmare atti fortemente in deficit e vittima delle pressioni e delle forzature dei due vice premier.
Per rincorrere l’assistenzialismo dell’alleato pentastellato, molte delle promesse elettorali della Lega, come i tagli fiscali e le misure di stimolo al lavoro e alla produzione, sono finite nel dimenticatoio. Tradendo lo causa storica della rivolta fiscale del nord, il partito di Salvini gira le spalle a quello che fu lo zoccolo duro dell’elettorato del Carroccio e, al tempo stesso, sacrifica la crescita italiana sull’altare delle istanze populiste.
La rendita della politica del pugno duro sui migranti non durerà a lungo. A maggio, alle elezioni europee, a contare saranno gli effetti negativi della manovra economica sulla classe media e la prospettiva, sempre più vicina, di un aumento dell’Iva.