La politica estera non è esattamente l’arte dell’improvvisazione. Quando ci si muove sul piano mondiale, e si dialoga alla pari tra soggetti sovrani, in quella bolla nello spazio-tempio sociale che è il regime del diritto internazionale, non ci sono regole certe che tengano e a contare sono anzitutto le armi più antiche del mestiere: esperienza, relazioni e lungimiranza. Specie per un Paese come l’Italia, che storicamente non ha mai adottato una chiara e incisiva strategia di posizionamento, muovendosi su un filo sottile lungo l’età liberale e l’età repubblicana, fino all’attualità.

Defezioni note a tutti sono avvenute nel corso del Secolo Breve – il temporeggiamento durante il primo conflitto mondiale, l’avventurosa alleanza con la Germania nazista, il filo-americanismo sporcato dal Partito Comunista Italiano – e gli smarrimenti, imposti dalla cautela della transizione post 1989, sono continuati durante la Seconda Repubblica. Oggi che l’improvvisazione in Italia è assurta ai Ministeri, è legittimo chiedersi se quel filo sottile, su cui fino ad ora ci si è mossi in diplomazia, possa spezzarsi. Tenendo conto di un quadro quanto mai complicato: le nuove pedine emergenti sullo scacchiere internazionale, i sovranismi in ascesa in Occidente, le ondate migratorie e l’irrisolta emergenza della minaccia del terrorismo islamico.

Lo spirito di rottura propagandistica dell’attuale Governo non viene meno in ragione degli allineamenti internazionali, sebbene con una differenza evidente: mentre su (quasi) tutte le altre istanze l’esecutivo fa la voce grossa e cerca di avviare l’intimidatorio “cambiamento”, sugli affari esteri ha assunto un atteggiamento in generale passivo, nonostante a monte M5S e Lega avessero cercato di porre rimedio alla loro inesperienza con la nomina a capo della Farnesina del navigato Enzo Moavero Milanesi, già Ministro per gli Affari europei nei Governi Monti e Letta, che comunque resta un soggetto neutro.
A parte l’imbarazzante scampagnata, in apparenza estemporanea, di Luigi Di Maio in Francia coi Gilets Jaunes, un’iniziativa portata a termine è stata la firma del Memorandum d’intesa con la Cina sulla Via della seta, di cui però i nostri alleati a Bruxelles e a Washington (dalla Casa Bianca è partito anche il monito a riserrare le fila dell’alleanza atlantica), hanno lamentato la scarsa trasparenza nella conduzione delle trattative.

Per il resto, sulle due grandi crisi politiche dello scenario internazionale, almeno per l’ampiezza degli interessi geopolitici coinvolti, prima Maduro e adesso la Libia, il Governo sembra continuare a distinguersi per la solita impasse. E si sa che in diplomazia, non fare niente, è spesso l’atto più isolante e deprecabile.

Sulla crisi in Venezuela, dove lo scorso gennaio il Presidente dell’Assemblea Nazionale Juan Guaidó si è autoproclamato presidente ad interim con l’obiettivo di deporre il Governo di Nicolás Maduro, la posizione poco chiara dell’Italia fa da eco agli scontri tra le due anime di maggioranza. Da una parte, il M5S non ha voluto riconoscere Guaidó per la sua tradizionale opposizione alle interferenze occidentali nei Paesi stranieri, dall’altra la Lega avrebbe preferito seguire la linea degli alleati occidentali in merito, una linea che richiama la recente tendenza, elaborata in chiave ONU, a schierarsi dalla parte del “sovvertitore”, quando si è in presenza di gravi violazioni dei diritti umani, come quelle che si sarebbero consumate sotto il regime del dittatore venezuelano. E così, Palazzo Chigi ha ripiegato su una posizione del tutto inedita e pasticciata: sì alla deposizione di Maduro, ma no ad ultimatum per nuove elezioni e al riconoscimento di Guaidò. L’interdizione di Stati Uniti e Europa ha potuto solo fare seguito.

Sul versante libico, il rischio che si sta profilando è esattamente lo stesso. Con interessi in gioco molto più alti. L’avanzata su Tripoli da parte dell’uomo forte della Cirenaica, il Generale Khalifa Haftar, rischia di far sprofondare un’altra volta il Paese nella guerra civile, con la Francia pronta a fare la parte del leone. È stato l’Eliseo a bloccare la dichiarazione Ue, che intendeva condannare l’iniziativa di Haftar e garantire continuità e sostegno al Governo di accordo nazionale di Fajez Serraj, l’uomo riconosciuto dalla comunità internazionale alla guida del Paese nel 2015. Con un eventuale ribaltamento degli equilibri in Libia, l’Italia avrebbe molto da perdere in termini economici (petrolio) e di sicurezza (migranti), specie nel quadro di un clima così teso con la Francia di Macron; la cui spregiudicatezza in Africa non si frenerà di certo di fronte a chi temporeggia e, al più, lancia improvvisate accuse di “imperialismo”.