Il quadro elettorale del Movimento 5 Stelle è un chiaroscuro dai contorni difficilmente distinguibili.
Dopo le deludenti tornate regionali, da ultimo quella in Basilicata, che hanno indebolito il peso specifico della leadership pentastellata all’interno della maggioranza, sarà cruciale l’appuntamento del 26 maggio per eleggere il parlamento europeo. I 5 Stelle avranno l’obbligo di sforare, e non di poco, la soglia del 20% per attestarsi almeno al secondo posto e mettere a tacere ogni perplessità sulla tenuta della maggioranza con la Lega. È evidente che un ulteriore risultato negativo, a maggior ragione su base nazionale, farebbe traballare l’alleanza di Governo; la palla passerebbe al vicepremier Matteo Salvini, che vedrebbe legittimato il suo predominio, e le opposizioni avrebbero gioco facile a screditare l’azionista dell’esecutivo in difficoltà.

Ma l’andamento elettorale del Partito di Luigi Di Maio non può prestarsi soltanto ad un’analisi convenzionale. Sulla carta, una coalizione politica ancora non radicata territorialmente – vuoi per le deludenti esperienze di amministrazione locale, vuoi per la mancanza di apparati tradizionali – può difficilmente competere con quelli che sono i substrati di decenni di preferenze politiche tradizionalmente espresse, a differenza di quanto avviene a livello nazionale. Prendiamo l’esempio della Basilicata. La Regione rossa del sud ha visto per la prima volta dall’inizio della Seconda Repubblica la vittoria del centrodestra (42,2%), mentre la coalizione di centro sinistra è riuscita ad accaparrarsi un secondo posto (33,1%) quasi insperato alla vigilia della competizione, visti gli scandali che avevano colpito la giunta uscente e l’infinita querelle interna per la designazione del candidato.
I 5 Stelle non hanno saputo trarre vantaggio dalle difficoltà dell’avversario progressista e si sono fermati al terzo posto col 20,3 %, perdendo quasi 6 elettori su 10 rispetto alle politiche del 2018, quando trionfarono col 44,4%. Una perdita di consensi talmente grave che ha origine sì nell’insoddisfazione di una parte dell’elettorato pentastellato in seguito ai primi mesi di Governo e all’alleanza con la Lega, ma anche nella specificità di un contesto territoriale come quello lucano. A ben vedere, in Basilicata, sono state presentate liste di centrosinistra autoctone, di origine e identità chiaramente lucane. Il simbolo ufficiale del Partito Democratico compare soltanto in una lista della coalizione, in secondo piano sotto il nome “Comunità democratiche”. Per il resto, non c’è alcun riferimento alle compagini nazionali, che sfilandosi hanno cercato di salvare il salvabile per evitare il sorpasso targato 5 Stelle. Dalle competizioni regionali fino a quelle comunali, il voto di protesta non serba lo stesso fascino che ha a livello nazionale, dove riesce ad attecchire trasversalmente sulla popolazione e a massificarsi in percentuali significative. Sul territorio, spesso l’elettore segue una logica più razionale, esprimendo una preferenza in vista del soddisfacimento di un’istanza ben concreta, in sostanza quotidiana, che può essere intercettata solo da organizzazioni politiche presenti e attente in un determinato contesto sociale e geografico.

I legami concreti e tangibili della politica territoriale sono davvero altra cosa rispetto allo spazio aereo e insondabile lungo cui oggi si profilano le nuove sfide politiche. L’errore che un partito di nuova generazione come il Movimento 5 Stelle può commettere, è quello di impostare la propria strategia soltanto sulla dimensione “aerea” della politica, tralasciando di sondare quella “terrena”, che resta cruciale per la legittimazione profonda di una forza politica con ambizioni maggioritarie. Ed è su questo punto che i partiti tradizionali possono recuperare il terreno perso elettoralmente, evitando di farsi trascinare dalle forze anti-establishment nel loro vortice di istanze multiformi e indistinguibili.

All’indomani del crollo del 24 febbraio in Sardegna, dove il M5S si è fermato al 9,7%, il capo politico Luigi Di Maio se ne è uscito con proposte strategiche di trasformazione radicale, tra cui l’apparentamento con liste civiche connaturate ai territori e la deroga al limite dei due mandati per i consiglieri locali. Misure che, se andranno in porto, potrebbero portare a risultati positivi in termini di stratificazione territoriale.
Giocando d’anticipo, le forze tradizionali dovrebbero pensare a rinverdire le loro basi elettorali sul territorio. Chiaro in questo senso è il segnale lanciato da Forza Italia in occasione dell’Assemblea nazionale del 30 marzo a Roma, dove erano presenti molti rappresentanti di Comuni, Provincie e Regioni, da nord a sud, chiamati a testimoniare le loro esperienze amministrative e ad esprimere il loro sostegno in vista delle europee di maggio.

La messa a punto di una strategia vincente deve sempre tenere conto dei punti deboli dell’avversario, che attualmente sono due: il ruolo di governo e l’amministrazione del territorio. Il governo anziché far aumentare consenso lo erode, lo prosciuga. In un anno l’appeal del movimento grillino è stato di fatto falciato in pieno. E poi c’è il terreno della politica, quello fatto di amministratori competenti e volizione al territorio, terreno storicamente sfavorevole per le ambizioni dei 5 stelle.

La partita è aperta ed il terreno per il centrodestra sembra essere in discesa.