Se è vero che il conflitto è inscindibile dalla politica, è anche vero che un duello come quello attuale all’interno della maggioranza raramente si era visto. Va bene la natura inedita del Governo gialloverde, che si fonda su un algido contratto, in deroga alle più comuni pratiche della consuetudine pubblica, ma il criterio di “specialità” non può apporre giustificazioni soddisfacenti di fronte ad anomalie di tal portata. Semplicemente perché quando le pratiche tipiche dell’opposizione entrano nel potere esecutivo, allora il Governo, nella sua accezione classicamente democratica, fallisce.

foto presa da: DAGOSPIA

Gli scontri che provengono da Palazzo Chigi, acuiti ora dal caso Siri, ci parlano di una situazione istituzionale compromessa e di una crisi post-politica che sembra lasciare poco spazio alla tutela democratica.
L’indagine scattata sul sottosegretario della Lega Armando Siri, accusato di corruzione, ha inasprito i già tormentati rapporti tra i due alleati, M5S e Lega. Addirittura il premier Giuseppe Conte, in questo caso, ha abbandonato la linea della cautela e ha chiesto le dimissioni dell’esponente del Carroccio indagato, facendo spalluccia ai Cinque Stelle, attestati sulla classica posizione giustizialista. Si attende la resa dei conti mercoledì, durante il Consiglio dei Ministri, in cui i Cinque Stelle siedono in maggioranza, come ha ricordato Luigi Di Maio nel caso si volesse arrivare allo scontro finale col voto. Dal Quirinale la questione è stata rimessa interamente alla responsabilità del Governo, essendo una decisione sull’operato di un sottosegretario un fatto di indirizzo meramente politico.

A seconda di come i rapporti verranno ricomposti, e se verranno ricomposti, il voto delle europee in calendario per il 26 maggio si prospetta incandescente: la revoca di Siri comporterebbe un tale smacco per Matteo Salvini, che se dalle urne uscirà un risultato come i sondaggi prevedono, con un distacco della Lega di 10-12 punti, il leader del Carroccio non penserebbe due volte a cercare la rottura coi Cinque Stelle. Nel caso in cui il sottosegretario leghista restasse al suo posto, a perdere terreno sul piano dei consensi sarebbe comunque il M5S, che sconterebbe in termini elettorali di non aver mostrato il pugno duro, e Salvini non avrebbe nulla a cui appigliarsi per la rottura. Le dimissioni spontanee sarebbero il modus operandi degno di in esecutivo bicolore ordinario: ma di fronte alla “specialità” di una convivenza coatta e alle pratiche d’opposizione interministeriale, è inutile appellarsi alla politica del buon senso. E a rimetterci è naturalmente il Paese.

Gli scontri sono stati la cifra del Governo gialloverde sin dalla sua formazione. Province, autonomie, migranti, reddito di cittadinanza, legittima difesa, Tav, Tap, flat tax: a nessuna di queste materie sono state risparmiate polemiche e ostracismi. A Palazzo Chigi l’opposizione si fa in casa, facendo così saltare il più antico schema costitutivo del dialogo politico tra maggioranza e minoranza, tra Governo e opposizione. Poco importa se le frecciate tra gli esponenti di Cinque Stelle e Lega rispondono a qualche moderna strategia di marketing elettorale. Nel momento in cui la guerra si stanzia al Governo, e la solidarietà – indispensabile per decidere insieme – ne esce, a saltare sono le regole del gioco costituzionali. E di fronte allo stallo ministeriale, basterà qualche bravata comunicativa a salvare i due vice premier dal baratro?